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MANIFESTO DELL’ESSERE

essere figura, essere immagine, essere suono

È un movimento dell’essere che rifiuta un teatro di intrattenimento o di servizio, e vuole testimoniare attraverso la propria opera artistica (sacrificio) l’immediatezza, la sincerità e l’inquietudine che ci pervade oggi. Nel contesto di una crisi economica e di identità sociale vuole interrompere l’accelerazione verso il conservatorismo di necessità, responsabilizzandosi della domanda di sostenibilità sia nella fase produttiva che in quella performativa. Vuole essere parte coerente di ciò che rappresenta, anche dell’utopia poetica. Movimento fatto per cuori forti, in contrapposizione alla linea del già detto e del già fatto, all’offensiva con il sogno/segno del futuro. L’intensità sarà l’opzione per ri-creare, da vivi, un presente parallelo. Esistere in questi momenti, consapevolmente mortali, ci farà guerrieri senza paura, ci farà scudo alle banalità, ci consolerà e restituirà alla nostra natura primordiale di anime solitarie unite in un cammino evocativo e spirituale del poeta, in una visione critica e sempre in bilico tra il conscio e l'inconscio, una sottile linea rossa in cui siamo osservatori di noi stessi e pronti ad avventurarci sulle ipotesi più diverse, anche le più paradossali.

Non fare arte o poesia ma esserlo, questa è la nostra sfida.

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TESI - ANTITESI

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In questi anni, in Italia, si sta vivendo una profonda crisi politica, non per strascichi di guerre ma semmai per conflitti psicologici di una società che non ha una visione del futuro, e nel campo teatrale si impone l’idea di un teatro di servizio o di intrattenimento.

L’accelerazione in cui si muove la società, produce un futuro ambiguo e incerto; ciò produce come contrappeso l’idealizzazione di stereotipi moralizzanti e costruisce sovrastrutture economiche che hanno risultati dicotomici rispetto alla valorizzazione delle idee, dei percorsi artistici. Riappropriarsi dell’indipendenza nei confronti del sistema è fondamentale, anche se, nei tempi brevi, ci costerà in termini economici e di “visibilità”. Abbiamo bisogno di coerenza e meno pragmatismo che possiamo tradurre così: produrre a costi bassi, ottimizzando tutti i mezzi e gli spazi di cui si ha la possibilità d’uso e gestione, performare in ogni occasione possibile, per confrontarci, anche nei contesti diversi underground, con e nella scena contemporanea. Un percorso virtuoso per dare vitalità al movimento e a ciò che può esprimere. In questo senso, la scelta del “sottotraccia” sarà una delle sedi metaforiche e non solo della rinascita, anche alveo di un seme che diventerà pianta, dove le diverse arti si potranno confrontare e fluidificare, evitando le stratificazioni strumentali care al sistema dei circuiti ufficiali.

È importate per il manifesto fondare una rivista di critica, un Fogliacccio Povero che diventi tavolo dialogico, non veicolo promozionale di certezze ma dove tutti coloro che fanno parte del Manifesto dovranno contribuire con scritti e opinioni. Non esiste una rivista in Italia, che abbia mai definito i confini e gli sconfinamenti del movimento artistico teatro di figura, immagine e suono; questo si sta ripercuotendo  sulle  giovani generazioni che sembrano non esprimano una voglia di vera nuova onda indipendente e rivoluzionaria. Un Festival da inventare nella sede del Teatro del Lavoro di Pinerolo può diventare il fulcro di irradiazione o perlomeno uno dei luoghi utili (l’equivalente di Cannes per la Nouvelle Vague) ma prima si devono costituire le fondamenta forti del discorso rivoluzionario artistico, dove le nuove idee, anche radicali, siano traghettate, come protagoniste, in ambiente produttivo (fare studi, spettacoli, anche cose brevi) in modo di pervadere la comunicazione in modo indiretto.

Noi fondatori di questo movimento siamo compagnie composte da persone con esperienza decennale (over 35). 

A fronte di questa scelta noi fondatori ci impegnano a fare un’analisi approfondita del Teatro di Figura, d’immagine e di suono non solo producendo spettacoli innovativi e, se necessario, presentandoli fuori dagli spazi canonici (underground), ma anche una critica composita, con il compito di darsi voce attraverso opinioni a cui dar spazio su questo Fogliaccio Povero, un tavolo dialogico, semplice e immediato con contenuti e pensieri condensati nella forma scritta.

Un periodo di produzioni che esprimano i concetti espressi nel manifesto è indispensabile quanto prima per dar corpo alle idee; è innegabile che il Manifesto si muoverà per un periodo in un contesto transizionale. È un seme da interrare nella delusione e nella crisi che viviamo e da cui dovrà nascere una nuova onda, una Nouvelle Vague..

Nel contempo, osserviamo con delusione, che non vi è una nuova generazione che lotti per cambiare; le giovani generazione under 35, ipocritamente vezzeggiate dal sistema nei vai bandi di sostegno e residenze, finiscono per esserne preda utile più che protagoniste, poiché imprigionate in un una illusione che nasconde il corto circuito crisi economica / assenza mercato, che porta ad una visione distopica; questa generazione, in gran parte, risponde alla crisi con una difesa di retroguardia o corporativista, rinunciando al proprio ruolo artistico e poetico rivoluzionario per ovvi scopi di sopravvivenza.

Per questo motivo, il movimento nuovo che si vuol creare non ha come base la questione generazionale ma una ripresa coraggiosa di tematiche e comportamenti anche datati (anni 70’) che portino, all’indipendenza e all’autonomia dai meccanismi “commerciali” o di convenienza, e ad una riconfigurazione del teatro di figura, d’immagine e di suono, come forma d’arte che segue l’evoluzione della contemporaneità in senso lato, cioè come forma artistica.

Da questo lavoro di dissodamento del terreno contemporaneo potrà scaturire la critica al teatro di figura del passato, non inteso solo/o tradizionale, ma come teatro che non risponde a delle urgenze artistiche e poetiche ma che è diventato teatro di servizio o di intrattenimento. La Nouvelle Vague immagina un’arte “dove si dice che la bellezza è lo splendore del vero, dove il cinema è uno sguardo ad ogni istante talmente nuovo sulle cose, da trafiggerle”, anche nel teatro di figura, d’immagine e di suono dobbiamo ricercare l’adesione ad un realismo/sincerità che non significa virtuosismo ma bellezza e coerenza per trafiggere la marionetta, l’immagine e il suono.

CONSIDERAZIONI CON-TEMPORANEE

morta una marionetta... se ne fa un’altra

Uso questo sottotitolo dal vago sapore Kantoriano, e che sottende ad una verità innegabile, per disegnare una certa visione personale della contemporaneità nel teatro di figura.

Partendo dall’antefatto pretestuoso e per quanto disdicevole, possiamo dire che una marionetta, quando fa la morta, svolge un ruolo in cui la mano dell’uomo non può comunque mancare; l’assenza di carne viva in questo caso diventerebbe la negazione di essa e svanirebbe quello di cui tanto nel teatro di figura si parla e si tratta nella tradizione, che l’oggetto come opera di fattura puramente scultorea sia sufficiente a se stessa. Finito.

Nell’interpretazione contemporanea della marionetta, se si volesse veramente sfuggire agli antichi stereotipi, la questione della vitalità/vita dentro di lei diventerebbe un aspetto residuale, quasi che il superamento di questo elemento figurativo, come lo è l’essere vivo in materia morta, fosse una maschera delle vere intenzioni, una finzione da gettare in faccia alle persone nei cosiddetti spettacoli.

Andando incontro alla “morte” contaminante della materia, se accettiamo di farne parte e non di staccarci da essa, si tocca invece l’astratto, e pauroso, inconscio che si avvicina al conscio, un processo che affronta il vuoto, le proiezioni oscure e forse il destino; una scorciatoia “sofferta” quella del teatro di figura, d’immagine e di suono, che forse descrive cos’è l’arte.

Quindi è morta. La marionetta è fortunatamente materia morta, che serve a rappresentarci, non neutrale, in quel viaggio verso le zone oscure dell’anima, di cui abbiamo ancora bisogno non solo evocandola come entità metafisica, ma di progettarla, di metterci mano per costruirla e usarla come mezzo da agire, corpo solido nella e per la sua forma. 

Perché tra-le-cose, le tante attraenti cose della vita in cui siamo immersi in questa complessa contemporaneità, noi comunque insistiamo e ci illudiamo di parlare attraverso l’oggetto marionetta, e decidiamo di traghettare o sublimare i nostri sentimenti e proiezioni attraverso essa?  Forse non è più solo la banale questione del nostro doppio a coinvolgerci, ma la sensazione che l’atto di ricerca, nel contesto in cui operiamo, non è per una nuova vita, ma per la nostra evoluzione come umanità incerta, dissociata, liquida, che deve accettare le personalità multiple di cui si compone, di cui una, sicuramente sarà la morte, cioè diventare materia inanimata. 

È qui forse, c’è una percezione di preveggenza del teatro di figura; prefigurare il futuro di una vita di mezzo, il TRA, un tra che è parte di tanti sensi: come tradizione, transizione e trasformazione…

ILLUSIONE - SCETTICISMO 

E nel farla, senza troppi paletti né confini, senza troppa maestria o mestiere, inventandoci il nostro progetto rigoroso, questo si, per sfrondare tra le tante, una ipotesi e una tecnica propria, troviamo l’emergere della figura inscindibile e utile solo alla nostra multi-personalità, inquieta eppur di senso nel binomio costruttore/manipolatore come un testo lo è per la voce.

In questo caso l’idea di Von Kleist del macchinista inconsapevole (inconscio) ci da le risposte e le motivazioni contemporanee, ci rivela la fusione tra animato e inanimato e ci dice che la marionetta ha un centro di gravità e non è solo la meccanica né il caso ( Dio non gioca a dadi) a tirare i fili della marionetta ballerino nel parco.

E per questa figura astratta possiamo trovare parallelismi illuminanti nell’ermetismo ungarettiano che rifiuta il “come” e che ci riporta alla magia di “essere metafora”, quindi non agitatori di marionetta simulando(ci) ma assimilando(ci) nell’essere marionetta, e non solo in senso figurato. L’essenza del movimento, è essere mossi dalla marionetta, e così portarci all’assenza, seppur parziale, per risolversi in una dissolvenza tra corpi, senza soluzione di continuità dove se è vero che si da vita, è anche vero che si diventa parte della materia morta. 

Questo transfert è il fondamento nel teatro e nell’essere personaggio di Stanilaskij, ma per noi, marionettisti o creatori d’immagini, sappiamo di trasferirci in un oggetto senza vita ed è banale adagiarsi mollemente nell’interpretazione di un riflesso, di un gesto dell’eterea anima se non cogliamo la forza “spirituale” della materia, non solo nell’effige populista e moralistica del virtuosismo. La materia, la luce, il suono devono parlare di per se, sebbene imbastarditi dalla nostra destrezza, devono invaderci, dobbiamo diventare una parte di essi. 

L’inconscio collettivo del pubblico ancora crede, per fortuna, nell’esistenza del soprannaturale; è questo a cui accediamo (accendiamo) con il teatro di figura, d’immagine, di suono, non siamo descrittivi, siamo percettivi, onirici, e ciò fa deviare i pensieri razionali verso le zone nascoste, e le marionette, le immagini e il suono possono farlo, come antagonisti della realtà. In definitiva, sul palco, questa è la forza occulta: la materia è vibrazione e il manipolatore ci entra e ci esce, ed ogni rappresentazione completa il ciclo nascita-vita-morte-rinascita, concedendosi la non linearità.

Il marionettista si può allontanare dal virtuosismo che nasconde più che rivelare; ha la consapevolezza di essere nel connubio con la materia perturbante anche senza agire, non è attore in questo senso, semplicemente è l’accettazione e l’involuzione del/nel soprannaturale, diventa uno sciamano, il creatore di feticci simbolici che tornano alle origini ancestrali dell’animo umano, ai suoi archetipi.

VERIFICA – CONCLUSIONE

Abbassare le difese, cercare il dialogo con queste spinte dell’inconscio, lasciandole emergere, forse è questa la strada del teatro di figura contemporaneo; può essere questo l’intrattenimento proiettivo in cu le persone desiderano immergersi, specchiarsi negli anfratti più profondi e sconosciuti del proprio animo, non solo per vedere passare il tempo ma soprattutto per trasformarsi nel tempo.

La vita nelle marionette è sempre l’anticamera della morte, vivono nella dimensione cimiteriale, appese, poggiate, indossate, una dimensione del sospeso, dove si parla con chi non c’è come ci fosse, dove tutto è finto e tutto è vero, come in un sogno ad occhi aperti, una fase onirica potente, dove ogni cosa può succedere, ogni cosa ha un senso da comprendersi. In questo sogno confuso ci immergiamo portandoci dietro chi ci guarda, attoniti. Forse è questo il senso ultimo ed essenziale di “Sul Teatro di Marionette”, nell’effimera coniugazione tra l’esistere e l’essere, tra il creare e il manipolare, tuffarsi con lei in un vacuo dove trovare la verità dell’istante, un istante che può ripetersi e ripetersi in una dimensione spazio/tempo, passato/presente/futuro alla portata dei nostri occhi. E, forse, questa è l’arte.

ABSTRACT

Abbassare le difese, cercare il dialogo con queste spinte dell’inconscio, lasciandole emergere, forse è questa la strada del teatro di figura contemporaneo; può essere questo l’intrattenimento proiettivo in cu le persone desiderano immergersi, specchiarsi negli anfratti più profondi e sconosciuti del proprio animo, non solo per vedere passare il tempo ma soprattutto per trasformarsi nel tempo.

La vita nelle marionette è sempre l’anticamera della morte, vivono nella dimensione cimiteriale, appese, poggiate, indossate, una dimensione del sospeso, dove si parla con chi non c’è come ci fosse, dove tutto è finto e tutto è vero, come in un sogno ad occhi aperti, una fase onirica potente, dove ogni cosa può succedere, ogni cosa ha un senso da comprendersi. In questo sogno confuso ci immergiamo portandoci dietro chi ci guarda, attoniti. Forse è questo il senso ultimo ed essenziale di “Sul Teatro di Marionette”, nell’effimera coniugazione tra l’esistere e l’essere, tra il creare e il manipolare, tuffarsi con lei in un vacuo dove trovare la verità dell’istante, un istante che può ripetersi e ripetersi in una dimensione spazio/tempo, passato/presente/futuro alla portata dei nostri occhi. E, forse, questa è l’arte.

da un imput di Mariella Carbone del 2016 

ABSTRACTISSIMO….

Interessante la focalizzazione sulla relazione  tra paziente e terapeuta per un percorso di “cura” o individuazione di un disagio attraverso attività manuali, attività che evolvono e si dipanano nella discrezionalità e le volontà messe sul campo dai soggetti: paziente, terapeuta, e medium marionetta. 

Per affermarne un riconoscimento di questo approccio arte-terapeutico, intravedo dal mio angolo visivo, come marionettista, un lato diverso o in più in questa triangolazione: paziente, terapeuta, marionetta, pubblico. Questo punto di vista “particolare” si manifesta e mi si propone per i collegamenti che ho nello svolgere l’attività di agire le marionette. Queste si trovano nell’attraversamento psichico da uno “stato ad un altro” materia viva e materia morta, alquanto ricorrente nella professione, che mi portano a pensare di essere agito dalla materia. Il terreno è forse tutt’altro, e non voglio scompigliare le carte, ma il mio vissuto professionale restituisce una visione in qualche modo “terapeutica” non ben identificata e che, sebbene nella vulgata del pensiero dominante sia scontato lo sdoppiamento/svelamento di una parte nascosta di se, è invece insufficiente come giustificante nel contesto contemporaneo di ricerca più profonda.  Questo confronto vita/morte, diventa quindi l’elemento da approfondire attraverso uno studio psicologico, in relazione e parallela ad una anamnesi terapeutica “codificata”. È un approccio che si apre ad una proposta di analisi mirata, che faccia emergere elementi non dichiarati e non dichiaranti di uno stato particolare del marionettista di chi agisce e che non è attore perché trasforma e si immedesima nella materia non solo nel personaggio. Quindi un approccio al linguaggio delle marionette, dell’immagine e del suono, non clinico certamente, concetto oltretutto forse superato nella psicologia moderna, ma di più ampio respiro e che include l’elemento terapeutico anche in tutto spettro performativo.

TERZO SOGGETTO ANALITICO

La nascita di un terzo analitico è “soggetto” co-creato inconsciamente dall’analista e dall’analizzando che prevede vita propria; ciò accade nella coabitazione e fusione tra manipolatori (come pazienti inconsapevoli) e marionetta (come soggetto/costruzione di una manualità più o meno complessa o spontanea) Gli aspetti proiettivi, identificativi, comunicativi di introspezione esistono, ed esiste un’evoluzione di se. La mia curiosità è: chi è l’analista, chi conduce e osserva il percorso “terapeutico”?

L’ipotesi, forse, acquista una logica nel teatro di marionette inteso in senso lato, nella sua forma di linguaggio come pura espressione di dinamica della materia. È forse che il terzo analitico che si fa nascere non sia il soggetto/oggetto, la marionetta, non così immaginario ma anzi  perno di staticità psicologica ma il pubblico che si cerca di fondere, strattonare, inseguire, coinvolgere in una fusione per la co-creazione, predeterminata drammaturgicamente, di questo terzo analitico?

 

Sulla marionetta ibrida e l’innovazione

La marionetta ibrida è di per se un tradimento una involuzione della marionetta: nell’introdurre parti umane nell’assemblato, reintroduce la “maschera parziale” o meglio il “mascheramento parziale”, una involuzione che si contrappone al concetto di maschera totale e lontana da sé che è nel percorso dalla maschera alla marionetta, il burattino, ecc..

Riproduce però perfettamente la metafora dell’esame, non inteso come giudizio del prodotto o di una pratica virtuosa, ma delle motivazioni di un “mascheramento”, di un confronto in cui c’è un’emersione diretta di un sé che letteralmente ci libera nel legarci. 

In questo caso, credo che sia si, utilissima come attrezzo di studio terapeutico, per percorsi e relazioni che cerchino un complesso e sfaccettato quadro estetico/emotivo abbinato ad un processo di costruzione e movimento spontaneo, immediato e semplice ma anche nel lavoro contemporaneo di introspezione, nell’amalgama tra manufatto e psico agito delle neo-emozioni.

INNOVAZIONE

Gli esperimenti degli anni 90’, attore con figure, più o meno statici, ed oggetti, si stanno esaurendo perché non riconoscibili, e non memorabili, all’interno di un pubblico, interno ed esterno, che riconosce nel meccanismo i fondamentali del linguaggio marionettistico.

Nell’innovazione del teatro di figura c’è una scommessa che configura all’interno queste pulsioni, tra psicologia e tecnica, rivelatrici di un fermento in questo linguaggio teatrale. La difficoltà naturalmente, per chi vuole costruire un quadro di sintesi di queste tendenze, è far convivere la figura nella sua visione morfologica (quella dei musei ne è la punta più alta) con l’innovazione e nella contaminazione con altre arti e gli aspetti psicologici che la approfondiscono. C’è bisogno di una ricerca di ottimizzazione delle risorse intellettuali che conducano verso una nuova valorizzazione poeticamente partecipata e tecnicamente ben individuabile nella marionetta intesa come poesia/arte in senso lato. 

Al di la di ogni pensiero populista e ogni estetica didascalica, l’istinto delle persone si rifà a quel codice “arcaico” del linguaggio, che assimila la marionetta come vita nel/del meccanismo, e l’affiancamento con altre arti non è lo stratificarsi ma l’omogeneità, la fusione e per lo meno il senso nell’accostamento.

La chiave, a mio parere, è l’empatia che i soggetti protagonisti, i manipolatori di immagini suoni e marionette, mettono verso il loro agire sul medium; il percorso di un approfondimento psicologico è utilissimo per chi vuole accostare le varie forme teatrali al teatro di figura, utile a trovare nuove strade, nuovi stimoli, nuovi inizi e considerare, superando un vecchio concetto, la marionetta come versione della propria psiche non solo del proprio corpo.

Ne è esempio particolare l’accostamento con la danza contemporanea: danzatori come marionettisti di se stessi e marionettisti come costruttori del proprio danzatore; tutte e due le arti hanno un elemento di trasfigurazione di se stessi, più o meno traslata, che nella metafisica dell’atto scenico l’importanza di ciò che vediamo è in ciò che non si vediamo”.

LO SPAZIO DELLE MARIONETTE

Lo spazio delle marionette nel teatro di figura tradizionale, la baracca, è uno spazio che nel contenerle le fa “essere”, esistere con certe peculiarità in quanto lo spazio è “pieno” di significante. Incontrare la marionetta oggi, in contesti diversi, in un certo senso la libera di questa sua pienezza residuale e folcloristica, e diventa non solo diversa per ogni contesto in cui “vive” ma è lei che può dare significato al contesto, anche al corpo umano. Il suo pieno è si riempito, quindi, in base a ciò che la circonda ma può acquisire o dare valenza a chi la muove, naturalmente non nel modello virtuosistico. Sebbene si cerchi per alcuni, come dogma, la neutralità del manipolatore, nell’inconsapevolezza e nell’errore del meccanismo teatrale, c’è lo spazio per il riempimento empatico dell’essere umano come accompagnatore accoglitore di questa materia “complessa”.

Il futuro della marionetta quindi, sfuggendo all’ipotesi tradizionale di spazio unico, potrebbe essere la figura diffusa in diversi spazi metafisici vuoti creati dalle sensazioni che la circondano più che da sovrastrutture solide e opache, e dialogare con tutti i linguaggi artistici e nei contesti che nell’accoglierla la riempiano e non che siano di solo di accompagnamento.

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